Spionaggio aziendale dei propri dipendenti, facebook diventa un’arma letale, oltre che legale. E’ quello che emerge dalla sentenza della Cassazione sull’insolita forma di controllo messa in atto dal proprietario di un’azienda: un profilo falso su facebook e l’amicizia chiesta (e accettata) al suo dipendente.
La vicenda è quella di un operaio abruzzese addetto alle stampatrici che, nel 2012, era stato licenziato per “giusta causa” dopo essere stato colto a scrivere con il suo cellulare su facebook durante l’orario di lavoro. La vicenda si fa surreale perché seguendo la ricostruzione della sentenza si viene a sapere il modo in cui è stato accertato il comportamento dell’operaio, cioè attraverso la creazione di un profilo falso di donna da parte del responsabile del personale, il quale ha così adescato e tenuto sotto controllo il profilo facebook dell’operaio.
La Cassazione ha emesso la sentenza negativa, respingendo il ricorso dello stesso, in quanto ha ritenuto che l’azienda non spiava l’attività lavorativa del dipendente ma monitorava semplicemente i comportamenti lesivi del patrimonio aziendale. Così infatti si esprime: “non si può dire che la creazione del falso profilo facebook costituisca, di per sè, violazione dei principi di buona fede e correttezza nell’esecuzione del rapporto di lavoro, attenendo ad una mera modalità di accertamento dell’illecito commesso dal lavoratore, non invasiva nè induttiva all’infrazione, avendo funzionato come mera occasione o sollecitazione cui il lavoratore ha prontamente e consapevolmente aderito”.
La Suprema Corte non fa altro che confermare la sentenza della Corte d’Appello de l’Aquila che nel 2013 ritenne legittimo questo tipo di controllo sul dipendente, considerandolo privo di invasività. Conferma quindi il licenziamento in tronco nei confronti del dipendente.
Il punto focale della sentenza è proprio la libertà dell’azienda nelle azioni di controllo dei dipendenti qualora si sospettino comportamenti dei dipendenti che gravino sia sul rapporto di fiducia sia sull’attività stessa dell’azienda.
Quando in sostanza si registra la presenza di comportamenti illeciti. “Fermo restando – sottolinea la sentenza – la necessaria esplicazione delle attività di accertamento mediante modalità non eccessivamente invasive e rispettose delle garanzie di libertà e dignità dei dipendenti, con le quali l’interesse del datore di lavoro al controllo e alla difesa dell’organizzazione produttiva aziendale deve contemperarsi e, in ogni caso, sempre secondo i canoni generali della correttezza e buona fede contrattuale”.
Quindi la reiterazione di comportamenti anti-produttivi e illegittimi può far scattare nell’azienda la necessità di un controllo dei dipendenti usando mezzi “occulti” ma pur sempre privi di “invasività”.