Stretta sulla pedofilia online, il contatto virtuale e le cattive intenzione sono sufficienti per essere incriminati. Nessuna attenuante per chi adesca minori online, secondo la Terza sezione penale della Suprema Corte che ha emesso questa sentenza già destinata a fare scuola.
In questo modo si è respinto il ricorso di un uomo di cinquant’anni, campano, condannato per aver adescato una bambina di nove anni su internet, avvalendosi non solo della chat ma passando anche all’uso della webcam. L’uomo aveva tentato il ricorso sostenendo che veniva meno il principio della fisicità dell’approccio, non essendoci stati abusi e violenze vere e proprie.
Ma il giudice Vincenzo Pezzella, della Terza sezione penale della Cassazione, ha fugato ogni tentativo di ricorso equiparando di fatto gli atti sessuali virtuali a quelli reali, eliminando così ogni linea di confine tra il virtuale e il reale e definendo i social network come luoghi reali in cui si svolge la vita sociale, al pari di una piazza o di un locale. Per questo motivo la sentenza può definirsi di portata storica, in quanto definisce con maggior precisione il quadro di riferimento entro cui giudicare un comportamento “virtuale”, cioè avvenuto su uno spazio digitale.
Inoltre l’importanza di questa sentenza è data anche dalla sua ricaduta sulle successive sentenze, che vedranno in essa un cardine essenziale al quale rapportarsi. Definire in modo inequivocabile il mondo del virtuale in questo caso potrebbe aiutare a scoraggiare eventuali malintenzionati che usano il “virtuale” come rifugio sicuro e, così, rendere più difficile l’attuazione di un crimine orrendo come quello del caso analizzato.
Le azioni compiute online sono reali, non virtuali.